Una delle sacre abitudini del napoletano è bere il caffè. La famosa “na tazzulella e cafè” scandisce il risveglio al mattino, le pause di lavoro, la fine del pranzo. È la bevanda per antonomasia, quella da offrire ad a un ospite, giunto a casa o incontrato per strada, poco importa.
‘Nce pigliammo ‘nu caffè? (beviamo un caffè?) è un invito a cui è difficile sottrarsi, perché rappresenta una formula che sottintende l’apertura confidenziale all’ospite. Quindi il rifiuto a bere “na tazzulella e cafè” può essere interpretato dal napoletano come un’offesa.
Bere “na tazzulella e cafè” a Napoli è, oggi, un’abitudine e un rito. Entrare in una caffetteria o in un bar di Napoli e fermarsi per bere “na tazzulella e cafè” equivale a varcare i sacrari della tazzulella, una tradizione legata a un senso sociale profondo.
La caffetteria o il bar corrisponde alla dimora dell’anfitrione, che si dimostrerà irremovibile nel voler offrire il caffè all’ospite e nel pagare il conto.
Lo stesso identico discorso accade se si offe “na tazzulella e cafè” a casa. Qui i più nostalgici lo prepareranno con la moka napoletana, la classica “cuccumella”, ed inizieranno a decantare le proprie doti nel saper preparare il miglior caffè del mondo.
Perché esiste più di una maniera per preparare il caffè napoletano e, a Napoli, ognuno è convinto che il suo modo sia il migliore.
La “tazzulella e cafè” dovrà essere calda, appena estratta dall’acqua bollente, a meno che non venga richiesta appositamente fredda.
La scuola napoletana vuole che, prima di degustare la bevanda, si beva acqua per assaporare meglio l’aroma del caffè. La scuola palermitana, invece, afferma esattamente il contrario.
C’è chi introduce lo zucchero nella “tazzulella e cafè”, e chi predilige zuccherare il caffè dopo averlo versato. Ma, come detto, ogni napoletano è in possesso della “ricetta perfetta”.
Qualcuno dolcifica la bevanda inserendo nella “tazzulella e cafè” vuota una spuma di zucchero e gocce di caffè e montandolo sino ad avere una cremina. I “puristi” del caffè napoletano richiedono come “tazzulella e cafè” un piccolo bicchiere di vetro, perché lo ritengono il recipiente più adatto per degustare la bevanda, ed evitano le caffetterie che usano polvere di caffè “industriale”. A queste ultime preferiscono locali che usano caffè torrefatto da macinare (come il caffè Mexico in Piazza Dante Alighieri). Davanti al bancone, o seduti al tavolino, si giunge al punto cruciale del vero rito che c’è dietro “na tazzulella e cafè”: la conversazione, che spesso a Napoli si allarga, fino a coinvolgere gli altri sconosciuti che si trovano nella stessa caffetteria.
La cuccumella
La classica caffettiera napoletana è la cuccumella, termine che deriva dal diminuitivo di cuccuma (vaso di rame). Originariamente, infatti, la cuccumella era in rame e solo dopo il 1886 venne costruita in alluminio.
La cuccumella è stata inventata in Francia nel 1819 e la sua produzione continua ancora oggi. Il suo uso quotidiano, però, è diventato sempre più raro e, oggigiorno, è stata soppiantata dalla moka.
La cuccumella ha una forma molto diversa dalla moka che conosciamo oggi. La sua particolarità nasce dal serbatoio dotato di un beccuccio che è direzionato verso il basso, quando viene preparato il caffè.
La tradizione napoletana prevede di inserire il cuppitiello sul beccuccio (un piccolo pezzo di carta piegato a forma di cono) quando il caffè scende nel serbatoio. Tale stratagemma consente di conservare meglio l’aroma. Tale tradizione è raccontata in maniera puntigliosa nella commedia “Questi Fantasmi” da Eduardo De Filippo.
La storia
I chicchi di caffè da tostare comparvero in Italia nel 1570, arrivarono a Venezia e vennero usati come medicinale. Solo dopo molto tempo si scoprì il caffè infuso, che ben presto piacque in tutta l’Italia. Nella città di Napoli il caffè, come oggi lo conosciamo, cioè la famosa bevanda nera, iniziò a spopolare tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800. In questo periodo si affermò la figura del caffettiere ambulante. Questi andava in giro con dei contenitori pieni di caffè e di latte ed un cesto pieno di tazze e caffè, ed iniziava a girare per le strade di Napoli sin dalle prime luci dell’alba aiutando a “svegliare” i napoletani con l’energica bevanda.
A Napoli si aprirono più di 100 caffetterie nell’800, tra i più celebri il Bar Starace, frequentato quotidianamente da Antonio Petito, sommo interprete di Pulcinella e il Gran Caffè Gambrinus. In questo storico bar nel centro di Napoli sono passati davvero tutti: da politici a poeti. Gabriele D’Annunzio, autore di “A Vucchiella”, era proprio in questo storico bar quando compose questa canzone.
La variante della barbajata, cioè caffè con panna e cioccolata, venne inventato da Domenico Barbaja, che inizio a lavorare come garzone nei caffè. La variante ottenne una fortuna pazzesca tale da fruttare lauti guadagni al signor Barbaja che divenne, così, un impresario del teatro San Carlo. Un fiuto eccezionale, non solo per il caffè, gli consentirono d scovare talenti della lirica come Donizetti e Rossini.